IL MARE E L’ALTO JONIO

 

L’economia delle popolazioni calabresi fu, dopo l’età classica, prevalentemente di tipo terrestre ed agricolo-pastorale, e tale venne affermandosi sempre più. I cessati o diminuiti rapporti politici ed economici col mondo mediterraneo alla fine dell’età romana, le invasioni e incursioni di orientali e di barbareschi, l’infierire e l’estendersi della malaria lungo le coste abbandonate per lontane alture difficilmente accessibili, tutto quel chiudersi in sé e abbarbicarsi alla terra aspra e selvosa che caratterizza la vita del popolo calabrese nell’età post-classica sino all’età nostra e, si può dire, sino al profondo sconvolgimento prodotto dal fenomeno dell’emigrazione, fecero sì che il mare divenisse a poco a poco, nella vita della Regione, elemento di importanza sociale ed economica assai scarsa o in certi casi addirittura negativa. Il popolo calabrese mise, quasi ovunque e specialmente sul versante ionico, fra sé ed il mare la barriera delle coste paludose e malariche, ed attese alla sua umile fatica di dissodatore paziente di terra, di pastore, di boscaiuolo, riducendo la propria economia a quel carattere prevalentemente terrestre che ancora oggi, pur dopo tanta vicenda di secoli e dopo un così notevole accrescersi dei suoi rapporti con le rimanenti popolazioni d’Italia, vivacemente persiste.

Non si vuol dire che la vita marinara calabrese cessasse completamente nel Medio Evo e nei principi dell’età moderna. Nel periodo bizantino e nel normanno è accertato il persistere e l’affermarsi di un notevole commercio di cabotaggio, e perciò di una vita propriamente marinara abbastanza intensa lungo le coste dei due mari; il che de- v’essere messo in rapporto con il fiorire in quelle stesse età di alcune produzioni tipiche della Regione, quali quella della seta, oltre che con una rinnovata importanza politica della Calabria nel mondo mediterraneo. Ma durante le età successive tale specie di commercio venne sempre meno, sì che la vita marinara calabrese si ridusse nella età spagnuola quasi soltanto alle pure necessità militari e di difesa costiera. Di approdi a Scalea, a Paola, a Scilla, a Reggio, a Crotone e altrove ci parlano cronache, storie o narrazioni di viaggiatori, per lo più stranieri, diretti in Sicilia o a Malta e costretti dalle tempeste a sbarcare temporaneamente sulle inospitali, deserte coste calabresi, tutte segnate da numerose torri di vedetta e di difesa contro i Barbareschi, spesso ancora oggi esistenti, o da castelli e baluardi inespugnabili.
Rimasero ancora lungo le coste, a segnare con il loro specifico lavoro e con le industrie ad esso annesse (costruzioni di barche, preparazione di canapi e di reti, ecc.), la continuità naturale di una necessità economica che nulla poteva interamente distruggere, nuclei di pescatori per lo più raccolti, specialmente sulle coste tirrene, nei brevi tratti di spiaggia sabbiosa vicini alle più caratteristiche prominenze abitate entro la cerchia di mura di difesa, quali Scilla, Tropea, Pizzo, Cetraro, Diamante, Scalea ecc. La pesca del pesce spada e quella del tonno nelle marine calabresi continuarono ad avere rinomanza ed una propria indiscutibile signficazione economica; ma nel complesso il ceto dei pescatori non riuscì mai ad acquistare una sua speciale fisionomia nella vita economica della Regione. Quasi sempre il pescatore fu anche agricoltore, per meglio riuscire al sostentamento di una esistenza resa assai grama dall’isolamento e dalla difficoltà dei trasporti, dalla scarsezza dei mezzi di lavoro e dalla continua minaccia di incursioni e devastazioni straniere. Spesso il pescatore calabrese finì col divenire, in una quasi disperata ricerca di mezzi di vita, soldato nelle marine spagnuola ed imperiale, prodigando in lontane avventure, nei mari di Oriente o lungo le coste dell’Africa, le sane forze della sua gente.
Iniziatosi però verso la metà del secolo decimosettimo, in seguito alle energiche difese della cristianità coalizzata, un generale miglioramento nelle condizioni di sicurezza delle coste del Mezzogiorno e della Calabria, diminuite e fattesi a mano a mano sempre più rare le incursioni dei Barbareschi, cominciò un lentissimo ma sicuro moto di discesa verso le coste di talune popolazioni calabresi. Non fu in genere ancora un moto verso il mare, come tale, fu piuttosto un moto verso le zone pianeggianti costiere, per il desiderio di trovarvi terre più atte alla coltivazione. Così vennero a poco a poco formandosi i centri abitati della costiera reggina con l’affermarsi delle colture di agrumi, e specialmente del bergamotto; Mèlito di Porto Salvo, per citare uno dei casi più caratteristici, si formò appunto alla metà del Seicento attorno ad una villa baronale, per emigrazione della bizantina Pentedàttilo, assurdamente arrampicata sulla sua rupe bizzarra.

Vennero così a poco a poco formandosi in età successive, specialmente lungo lo Jonio, i primi nuclei di abitati civili che, aumentati di numero e di importanza al principio del secolo scorso, finirono spesso col prendere il sopravvento sulla città e sui paesi originar, talvolta con il sostituirli interamente o quasi. Gli agricoltori, scesi alla costa per coltivarvi il bergamotto o piantarvi gli ulivi, per tracciarvi solchi di campi di frumento, per farvi sorgere orti e gelseti, diedero luogo a poco a poco anche ai trafficanti, agli intermediari nello scambio di prodotti del suolo, agli importatori di merci: tutta gente alla quale presto dovette apparire cosa naturalmente necessaria un ritorno alle tradizioni di navigazione di cabotaggio, la cui memoria non poteva essersi spenta. Le antiche città vescovili, appollaiate sulle alte rupi scoscese, ebbero alle marine i loro empori (Bova, Gerace, Rossano) e si videro i piccoli nuclei di case e di magazzini divenire borghi e città. La costruzione della ferrovia litoranea ionica, ultimata nel 1876, pur avendo contribuito fortemente ad accelerare questo interessante fenomeno di sdoppiamento demografico e a dargli caratteri sicuri di stabilità, fu forse un ostacolo quasi impensato al rifiorire di una attività marinara di navigazione, il nuovo mezzo di trasporto essendo parso da principio sufficiente ai bisogni maggiori del commercio interno regionale; ma ben presto la necessità di trovare mezzi meno costosi per il traffico con altre regioni d’Italia fece rivolgere l’attenzione delle classi dirigenti calabresi al problema delle opere marittime, necessarie allo sviluppo economico dei centri costieri e dei retroterra da essi dipendenti. Tutto un insieme dileggi fu emanato dopo il 1860 con questo intento (legge 24 maggio 1862 per la formazione di un porto a Santa Venere, 14 agosto 1870 e 23 luglio 1881 per la costruzione del porto di Reggio Calabria e il rifacimento di quello borbonico di Crotone, legge 15 luglio 1889 che autorizzò per lavori portuali da eseguire in Calabria una spesa, per allora ingente, di 5.500.000 lire, da ripartirsi in 12 esercizi). Si giunse così alla legge del 1906 a favore della Calabria, la quale autorizzò la spesa di 6.700.000 lire per altre opere di sistemazione, ampliamento, riparazione di porti nella Regione.

Da questo complesso di provvidenze statali sorsero, come si disse, il porto di S. Venere, quello settentrionale o Porto Nuovo di Crotone, i porti di Reggio Calabria e Villa S. Giovanni, quelli di Scilla e di Tropea e pontili di approdo, boe di ormeggio ed accessori alle spiagge di Siderno, Roccella Ionica, Soverato, Catanzaro Marina, di Rossano e Trebisacce sull’lonio, e alle spiagge di Pizzo, Paola, Diamante e Cirella sul Tirreno. Altre leggi del 1910 e del 1912 concessero ulteriori dotazioni complessivamente di circa 7 milioni per il porto di Reggio Calabria, per le boe di ormeggio di Bagnara e di Gerace e in genere per le opere maritti— me calabresi. Sfortunatamente tutto questo programma, indubbiamente abbastanza vasto e bene pensato, di lavoro trovò prima nel terremoto del 1908, poi nel sopraggiungere della guerra di Libia e della maggiore guerra europea, ostacoli gravissimi alla propria esecuzione; i quali, aggiunti alle gravissime difficoltà tecniche derivanti dai mari aperti e spesso tempestosi, dalla ristrettezza delle zone utilizzabili per cantieri, dalla scarsezza di cave di pietra per le scogliere e le costruzioni di moli ecc., fecero sì che il dopo-guerra trovasse i lavori in parte solo iniziati, in parte eseguiti frettolosamente e senza le necessarie opere di compimento (banchine, raccordi ferroviari, abitazioni per ceti marinari ecc.)…

Se sulle coste calabresi è assai scarsa la possibilità di veri e propri porti per un grande traffico di merci, parecchi sono i porti di esse, sul Tirreno e sull’Ionio, là dove i promontori rocciosi interrompono la bassa e diritta linea costiera, che si prestano alla costruzione di piccoli ma sicuri porti-rifugi adatti alle navi pescherecce, come base per lo sfruttamento razionale degli amplissimi specchi marini sui quali le stesse coste si affacciano.

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